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Il museo liquido – di Stefania Boiano e Giuliano Gaia

L’accelerazione tecnologica rappresenta una delle sfide più importanti per i musei, perché i cicli sempre più ravvicinati delle rivoluzioni tecnologiche vanno a impattare sui veri protagonisti della scena culturale oggi: i consumatori.

Il consumatore contemporaneo, o meglio il consum-attore come viene definito in molti studi, è al tempo stesso fruitore e creatore di contenuti. È abituato a una società dai ritmi sempre più incalzanti, sottoposto a una moltitudine di stimoli sensoriali e comunicativi, tra cui deve scegliere con grande rapidità, e tende a portare queste abitudini dentro al museo.

Raramente ha la voglia e la possibilità di focalizzarsi completamente su un solo stimolo; se viene colpito da un’opera d’arte, vuole immediatamente salvarla e condividerla con la sua “audience”. Di fatto, è al tempo stesso dentro e fuori al museo: vi è fisicamente dentro, ma una parte della sua mente è legata al mondo esterno, mondo esterno che però egli trascina dentro al museo, condividendo in tempo reale foto e impressioni raccolte durante la visita.

La geniale definizione di Zygmunt Bauman della società odierna come “liquida” è perfettamente adattabile al museo: un museo oggi è forzatamente liquido, proprio perché liquida è l’attitudine dei suoi consumatori. Le pareti non contengono più le opere: divenute immagini virtuali nello smartphone del visitatore, esse fluttuano per lo spazio della rete, sempre più alterate, sia dai filtri grafici applicati dall’utente, sia da reinterpretazioni più o meno fantasiose, con l’aggiunta di scritte, battute ed effetti speciali di ogni tipo, oramai alla portata di tutti grazie alla facilità di trasformazione offerte dalle app più diffuse.

Gli stessi confini del museo si fanno labili: spazio museale di cultura e rapporto con il visitatore sono oramai non solo il luogo fisico, ma anche il sito web, la pagina Facebook, il profilo Instagram, la voce su Wikipedia.

Come stanno reagendo i musei a questo nuovo, imprevisto scenario? Certamente con fatica. Il Museo, per sua natura ama le stabilità, le profondità, i tempi lunghi, e non i ritmi rapidi, mutevoli e superficiali dell’oggi. Conciliare queste due dimensioni è però una sfida imprescindibile, e non solo per fini promozionali, ma anche e soprattutto come obiettivo culturale. Se il museo abbandona la dimensione digitale, o la vede come una dimensione esclusivamente pubblicitaria e di marketing, di fatto si condanna all’irrilevanza in una sfera sempre più importante della vita contemporanea.

Esistono alcuni esempi virtuosi in questo senso. Il Cooper-Hewitt Museum di New York, ad esempio, ha abbracciato la necessità del visitatore di essere protagonista progettando per lui una vera e propria “penna elettronica” con la quale può interagire con tutte le installazioni multimediali del museo e indicare le opere che lo interessano, per salvarle e poterle rivedere su web successivamente alla visita.

In un caso oramai divenuto celebre, il Metropolitan Museum di New York è andato a cercare in rete le foto più belle scattate dagli utenti all’interno del museo e ne ha fatto il cuore della propria campagna promozionale “It’s Time We MET“.

Agendo per sottrazione, il RijksMuseum di Amsterdam, permettendo ogni giorno agli utenti di fotografare le opere dentro al museo e incoraggiandone la condivisione, ha potuto invitarli  per un giorno a disegnare i quadri invece che fotografarli, stimolando il recupero di una dimensione più riflessiva della visita, e ottenendo una vasta eco sui social media, realizzata però grazie all’audience raccolta e fidelizzata nel corso degli anni precedenti.

Il MoMA di San Francisco ha previsto uno sconto sul biglietto di ingresso ai visitatori che mostrano di aver scaricato sul proprio smartphone i podcast del museo, riconoscendo quindi che il valore aggiunto offerto da una pre-fruizione dei contenuti del museo prima della visita va incentivato anche a livello economico.

E in Italia? Come sempre, la situazione è molto differenziata, a volte anche all’interno del museo stesso, in cui l’adozione di un mezzo di comunicazione piuttosto che un altro è spesso dettata dalla sensibilità e dai gusti di un dirigente o di un collaboratore più che da un preciso piano strategico. Una nostra ricerca pubblicata a settembre 2015 su www.musei-it.com sui social media e sull’ottimizzazione per il mobile di diciannove musei milanesi ha mostrato un panorama molto eterogeneo, con poche istituzioni presenti in modo coerente su tutti i mezzi. Tra queste, va segnalato ad esempio l’exploit su Instagram della neonata Fondazione Prada, che in pochi mesi è riuscita a raggiungere un seguito molto più vasto di musei più grandi e da più tempo sui social, ulteriore conferma della “liquidità” e mutevolezza degli scenari digitali. Come affrontare quindi una situazione così complessa e in rapida evoluzione?

Innanzitutto con lo studio e l’osservazione. Un museo oggi deve innanzitutto sforzarsi di comprendere bene le mutazioni del presente, studiando i comportamenti del proprio pubblico di riferimento dentro e fuori il museo, e aggiornandosi sulle tecnologie più diffuse, anche per evitare errori che possono rivelarsi molto pesanti in termini sia economici che di immagine. Molto utile in questo senso è il confronto costante, sia in rete che dal vivo, con le esperienze internazionali, oggi molto più facilmente a disposizione di un tempo.

Un altro punto chiave è l’apertura al pubblico, intesa non soltanto (o non solo) in senso fisico, ma soprattutto in senso concettuale e attitudinale. I Social Media sono un dialogo, e funzionano bene se da parte dello staff museale c’è una vera volontà di apertura e di condivisione delle sfide e degli obiettivi quotidiani col proprio pubblico. Molto apprezzati ad esempio sono i “dietro le quinte”, tutto ciò che racconta la vita quotidiana della macchina museale. Questo cambio di atteggiamento costa sicuramente tempo e fatica, ma è in grado di stimolare un rapporto molto più stretto e fidelizzato col proprio pubblico di riferimento, con vantaggi sostanziali sul medio-lungo periodo.

Essenziale però per un dialogo efficace è la consapevolezza della propria mission. Se i collaboratori a tutti i livelli non hanno perfettamente chiara la ragion d’essere del museo, e il messaggio che intende portare nel mondo, la pagina Facebook andrà per la propria strada, chi risponde alle mail per un’altra, e il museo perderà molte occasioni di poter essere culturalmente rilevante.

Infine, occorre mantenere la fiducia in se stessi. In un mondo sempre più liquido, in cui a volte gli stessi utenti sembrano smarrirsi, la funzione dei musei come isole sicure di un sapere profondo, e come legame con i valori universali della creatività umana, può essere sempre più importante. Cambiano i mezzi e le attitudini ma non le spinte fondamentali dell’essere umano, e la propensione all’arte, alla storia e alla bellezza continua ad essere potente anche nell’era digitale.

Articolo tratto da Museo In-Forma, rivista del Sistema Museale di Ravenna, Speciale Musei nell’era della mobilità digitale – pag. 9 [2016 – N.55]

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