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Ricostruire una città perduta sulle rovine della nuova. Si può?

Tutti noi che lavoriamo in cultura abbiamo sognato almeno una volta di poter radere al suolo le parti moderne di una città per poter far risorgere il suo glorioso passato. A noi di Musei-it ad esempio succede ogni volta che percorriamo i bastioni di Milano, che delle seicentesche mura spagnole hanno mantenuto soltanto il nome, e guardiamo con rabbia gli anonimi palazzi ottocenteschi sorti al posto di quel capolavoro di architettura militare, che oggi renderebbe Milano una delle più grandi città murate d’Europa.


Mappa di Milano del Seicento con le mura spagnole in bella evidenza.

Questi pensieri lasciano però subito il passo a una cupa rassegnazione. I danni della speculazione edilizia sono permanenti: la città si modifica irrimediabilmente e oggi nessuno potrà restituirci le tracce del passato, se non sotto forma di pochi resti di fondamenta o ricostruzioni virtuali.

In Cina però un sindaco ha avuto un’idea diversa. La sua città, Datong, dal passato glorioso di capitale di tre dinastie, ma dal funesto presente di città mineraria e inquinatissima, aveva bisogno secondo lui di un colpo di reni per aprirsi a un luminoso futuro di capitale del turismo culturale.

Detto fatto, Geng Yanbo, questo il nome del sindaco, ha avviato un ambizioso programma di trasferimento forzato dei cittadini che abitavano sule aree storiche, distruzione delle loro case (quasi tutti casermoni stalinisti o baracche abusive) e ricostruzione delle grandiose mura della Dinastia Ming distrutte secoli fa.


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Le mura di Datong ricostruite dal sindaco visionario Geng Yanbo dal 2010 al 2014.

L’intera operazione è resa possibile sia dai rapporti di forza tra stato e cittadino, che in Cina risultano essere leggermente più a favore dello Stato che da noi, e da un’interpretazione più elastica del concetto di autenticità (come dimostrato dalle ricostruzioni di Venezie e Torri Eiffel che punteggiano l’entroterra cinese).

La storia di Datong è raccontata nello splendido documentario The Chinese Mayor meritoriamente portato da Paola Piacenza all’edizione 2015 del Milano Film Festival. Il documentario segue in presa diretta le giornate di lavoro del sindaco-picconatore, da una riunione con le aziende incaricate di demolire i palazzi alle udienze con i cittadini disperati, fino all’acquisto di dubbie opere d’arte per i musei della futura capitale culturale.


Il trailer del documentario “The Chinese Mayor” del 2015

Il documentario lascia nello spettatore più dubbi che certezze. Da un lato non si può non fare il tifo per il sindaco appassionato di storia e per il suo generoso tentativo di regalare un futuro culturale a una città poverissima e straziata dall’industria pesante, d’altro canto non si può dimenticare che ogni utopia che pretende di frantumare le esistenze dei singoli per realizzarsi rischia di trasformarsi in distopia, come dimostrano le esperienze sanguinarie di Hitler e Pol Pot. E’ giusto devastare interi quartieri per riportare in vita un passato che non esiste più? Quanto è “culturale” la ricostruzione delle antiche mura, al pari delle grandi cattedrali gotiche francesi ricostruite nell’Ottocento da Viollet-Le-Duc? Dobbiamo perciò rassegnarci a considerare le grandi città del passato perdute per sempre?


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Geng Yanbo: visionario o folle?

Sia come sia, il sindaco Geng Yanbo un merito lo ha avuto: fare di una una oscura città industriale cinese il simbolo di un dilemma a cui l’intera Cina dovrà trovare risposta in futuro, per trovare una via sostenibile allo sviluppo anche dal punto di vista culturale.

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