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Una verità scomoda sul pubblico dei musei, e qualche possibile soluzione.

Di Giuliano Gaia e Stefania Boiano, InvisibleStudio

“L’elefante nella stanza è questo: la maggior parte dei nostri visitatori non usa la tecnologia digitale durante la visita al museo”. Questa frase di Peter Samis del San Francisco Museum of Modern Art, pronunciata nel 2008 durante una presentazione sulle guide multimediali  ci ronza in testa da oltre 10 anni, ed è una delle sfide principali per chi come noi è impegnato nella progettazione di nuove vie per coinvolgere in visitatori, anche digitalmente, come ad esempio con i chatbot.

Eppure Peter aveva ragione: ancora oggi solo una minoranza di visitatori (il 3%  dei visitatori, secondo il British Museum) è disposta a pagare un extra per un’audioguida, e anche se la riceve compresa nel prezzo del biglietto, spesso non la prende o non la usa per tutto il percorso. Lo stesso discorso vale per le app e per le visite guidate (vedi ad esempio gli illuminanti dati forniti da Sara Devine del Brooklyn Museum nel recente libro Museums and Digital Culture ).

Di fatto, le persone neppure leggono i pannelli, al massimo danno un’occhiata distratta a qualche didascalia, e ascoltano di sfuggita le visite guidate, anche quando sono gratuite.

Quindi, parafrasando Peter, per noi il vero elefante, anzi il mammut nella stanza è questo: la grande maggioranza dei nostri visitatori non viene al museo per imparare. Le persone vanno al museo per fare esperienza dell’arte, della storia e della scienza, non per imparare l’arte, la storia o la scienza. Un’esperienza sociale, estetica, intellettuale, ma che non nasce dal desiderio di imparare; e questo vale anche per chi, come noi, dei musei ha fatto una professione. Quante volte nella visita a un museo “saltiamo” l’aspetto più propriamente informativo per “goderci” la semplice esperienza della visita?

Se tutto questo è vero, la domanda diventa: come possono i musei “forzare” i propri visitatori a imparare almeno qualcosa, in modo da rendere la loro esperienza di visita più approfondita e arricchente? 

La risposta potrebbe essere nell’esperienza stessa della visita. Ad esempio:

  1. Diorami e ricostruzioni  sono modalità potenti per trasmettere a tutti i visitatori, nessuno escluso, relazioni e contesti degli oggetti esposti, offrendo al tempo stesso un’esperienza arricchente e piacevole. e questo vale anche per i musei d’arte (pensiamo ai musei che ricostruiscono le chiese da cui sono stati staccati gli affreschi che mostrano).

  2. Il semplice atto di esporre degli oggetti vicini tra loro tende a creare un dialogo tra loro e automaticamente suggerire al visitatore che siano in qualche modo correlati.

  3. Frasi molto brevi (poche parole) scritte con caratteri molto grandi sulle pareti dei musei vengono lette da tutti i visitatori, se non sono più di una o due per stanza.

  4. I video nelle gallerie sono magneti di attenzione per i visitatori, come notato recentemente anche da Nina Simon nel suo seguitissimo blog, specialmente se sono molto brevi, in loop e posizionati in mezzo agli oggetti e non in sale separate.

  5. Gli oggetti o exhibit che puoi esperire con i sensi, come ad esempio gli oggetti originali che puoi toccare o le ricostruzioni come i pesantissimi remi del Museo della Navigazione di Genova, più efficaci di qualsiasi pannello esplicativo nel far comprendere la miseria della vita sulle galere.

  6. Anche le colonne sonore (di musica, voci o rumori) impattano su ogni visitatore che non abbia problemi di udito, e per questo vanno progettati con attenzione.

  7. L’atto del fotografare col cellulare è comunissimo tra i visitatori, come operazione di “memorizzazione” e “dimostrazione di interesse”, anche se non sempre vengono poi condivise o riguardate una volta finita la visita. Sapendolo, i musei possono cercare di sfruttare questa attitudine, ad esempio per portare l’attenzione su specifici oggetti o dettagli.

  8. I negozi dei musei tendono ad essere visitati da quasi tutti i visitatori, non soltanto perché sono spesso una tappa obbligata alla fine del percorso, ma anche perché “osservare le vetrine” è un atto naturale per l’uomo. Considerare lo shop come un’occasione didattica e non solo commerciale sarebbe quindi importante per i curatori di una mostra.

  9. Una percentuale molto grande dei visitatori utilizza i servizi accessori dei musei, come il bar e i bagni. Entrambi gli ambienti potrebbero essere resi più didattici, ad esempio legando i menu alle collezioni come fa il MUZA di Malta, o sfruttando il tempo che i visitatori passano alla toilette, come abbiamo mostrato nella nostra ricca raccolta di bagni museali.

  10. Infine, l’edificio museale in sé è un potente mezzo didattico, basti pensare al MUSE di Trento progettato da Renzo Piano come un ecosistema in se stesso; e questo vale per ogni dettaglio architettonico, dall’arredamento al rumore dei pavimenti quando ci si cammina sopra, a ciò che si vede fuori dalle finestre; tutto trasmette significato, e tutto può essere usato per “insegnare” qualcosa.

Questi sono solo alcuni esempi di strumenti didattici che sono naturalmente presenti nell’esperienza di visita di ogni visitatore. Non stiamo ovviamente suggerendo l’abbandono dei tradizionali mezzi di comunicazione del sapere museale, come audioguide o pannelli didattici; stiamo solo dicendo che se un museo vuole essere sicuro di trasmettere dei concetti al 90% dei propri visitatori, allora deve concentrare i suoi sforzi sull’esperienza stessa della visita piuttosto che solo sui mezzi interpretativi.

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