Di Giuliano Gaia.
Quando nel luglio 1944 le truppe russe entrarono a Minsk, capitale della Bielorussia, si trovarono di fronte un deserto di macerie: l’intera città era stata rasa completamente al suolo dalle truppe naziste.

Di fronte a questo oceano di rovine gli architetti stalinisti diedero priorità assoluta alla costruzione di due edifici: una gigantesca fabbrica di trattori e un grandioso museo sulla guerra appena vinta. Ricostruire gli animi tramite un museo appariva loro altrettanto importante che ricostituire il tessuto industriale della città: una lezione interessante per i nostri governanti di oggi, che in tempi di crisi tagliano innanzitutto le spese culturali.

Settant’anni dopo il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukašenko ha deciso di celebrare quella liberazione costruendo un nuovo sontuoso edificio per il Museo della Grande Guerra Patriottica.
Il grandioso rinnovamento del museo ha anche un preciso senso politico: infatti la Bielorussia è oggi una repubblica presidenziale autoritaria dai forti connotati nazionalistici, governata con pugno fermo da un presidente-padrone, Lukashenko, pittoresco nei comportamenti quanto deciso nel mantenere stabilmente la Bielourussia nell’orbita russa e nel celebrare il passato sovietico con un occhio di riguardo. E il passato sovietico si nutre fondamentalmente di un mito: la sofferta vittoria contro i tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale, non a caso chiamata ancora oggi Grande Guerra Patriottica.

Gli stati e i popoli infatti hanno da sempre bisogno di miti fondanti, storie epiche in cui i cittadini si possano riconoscere al di là di ogni divisione. E per essere efficace una storia deve avere un Nemico altrettanto efficace: da Darth Vader ad Hannibal Lecter, sono i cattivi che fanno le storie. In questo senso la Seconda Guerra Mondiale è perfetta, perchè ha nei nazisti il Cattivo ideale, talmente barbaro e visivamente lugubre, tra teschi e svastiche, da sembrare studiato da un regista. Ecco che grazie ai nazisti gli inglesi ebbero i loro eroi nei giovani piloti che fermarono la Luftwaffe nel 1940, i francesi riscattarono la sconfitta nell’indomito coraggio di De Gaulle, e persino gli italiani riuscirono grazie alla Resistenza a dimenticare almeno parzialmente la doppia brutta figura dell’entrata in guerra proditoria del 1940 e dell’altrettanto vergognosa resa dell’8 settembre 1943.

Il risultato e’ un museo contemporaneo nell’architettura e negli allestimenti multimediali ma sostanzialmente uguale nella concezione ai tanti musei celebrativi del nostro passato, da quelli del Risorgimento a quelli della Grande Guerra. Musei fatti per creare emozioni, non per offrire informazioni o suscitare interrogativi o riflessioni.

All’interno infatti il museo e’ strutturato con un percorso a spirale verso l’alto che porta il visitatore ad elevarsi progressivamente attraverso un percorso per temi (i carri armati, i partigiani, la distruzione dei villaggi, la vittoria, gli eroi) che culmina in una cupola di vetro dove vengono celebrati tutti i caduti della Grande Guerra Patriottica. La metafora della progressiva elevazione e’ potente e ha una funzione quasi religiosa, di progressivo avvicinamento all’Olimpo degli Eroi.

L’intento celebrativo è evidente anche nell’allestimento. Aerei e carri armati sono posti in grandi diorami con abbondante uso di manichini e disposti in modo da rappresentare duelli epici, quasi da film western: carri armati russi e tedeschi che si fronteggiano a pochi metri di distanza, aerei che si gettano l’uno sull’altro fin quasi a scontrarsi, con risultati non troppo realistici ma emotivamente efficaci.
Quando si arriva alla Katiuscia, il celebre lanciarazzi, la celebrazione dell’arma, del mezzo meccanico, tocca il culmine, con un video che manda in loop la canzone popolare Katiuscia (da cui i partigiani italiani trassero “Fischia il vento, infuria la bufera”) dando una forte colonna sonora emotiva alla visione del mezzo.

Un aspetto interessante è dato dalle didascalie. A differenza dell’Imperial War Museum di Londra, da noi recentemente visitato (vedi l’articolo Guerra e pace: la trasformazione dell’Imperial War Museum di Londra) il Museo di Minsk non offre spiegazioni, interpretazioni o spunti di riflessione. Ad esempio dei mezzi corazzati vengono indicati soltanto pochi dati tecnici, senza alcuna descrizione delle modalità di impiego, e di eventuali pregi o difetti. Non e’ neppure chiarissimo quali sono i pezzi originali e quali le ricostruzioni.

la ricerca dell’impatto emotivo è massimamente evidente nella sezione sui villaggi bruciati, una vera tragedia nazionale: i nazisti infatti bruciarono centinaia di villaggi bielorussi, causando la morte di migliaia di civli. Alla sezione si accede attraversando uno “schermo di fiamme” abilmente simulato, e ci si trova in agghiaccianti diorami di case bruciate. Le atrocità vengono rappresentate il più realisticamente possibile, per suscitare rabbia e sentimento patriottico. Nessuna analisi però viene offerta sugli effetti sociali e psicologici di queste devastazioni sulle popolazioni.

Il nemico, il tedesco, non è mai rappresentato come soldato o come persona, ma solo come mostro, come alieno da combattere e annientare. Il nazista viene impiegato anche per far rispettare i divieti: ad esempio per impedire l’ingresso a una determinata galleria non è stata messa una porta o un qualunque impedimento “classico”, bensì un posto di blocco guardato da un arcigno manichino in uniforme tedesca.

A differenza infine dei musei occidentali, in cui la presenza dei Bookshop è oramai imperante, al Museo di Minsk i gadget sono relegati a un piccolo spazio poco visibile, che offre però oggetti decisamente inusuali, quali mitra e granate di cioccolato, coerentemente con un museo che sembra quasi costruito non solo per ricordare le guerre del passato, ma, tramite la celebrazione delle armi e la disumanizzazione del nemico, per preparare quelle di domani.
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