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Cosa rende un museo davvero emotivo? Il caso delle Murate di Firenze

Questo si chiedevano i partecipanti a #museiemotivi, nel corso di lunghi e intensi workshop e seminari che per tre giorni hanno costituito il percorso formativo organizzato da Nemech a Firenze a cui abbiamo partecipato anche noi di Musei-it come partner e relatori.


workshop Nemech

Molte le risposte arrivate da pubblico e relatori. Un uso della tecnologia attento ai contenuti, allestimenti efficaci, coerenza del messaggio, coinvolgimento del pubblico, storytelling efficace, la qualità delle collezioni, un rapporto profondo col contesto locale?

Mentre queste domande si rincorrevano nelle sale a volte del complesso culturale delle Murate, al primo piano dello stesso palazzo si trovava una delle risposte più potenti che mai ci sia capitato di vedere: lo straordinario percorso museale/artistico dell’ex carcere duro.


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Le Murate sono uno dei mille palazzi storici italiani dalla storia ricchissima e sfaccettata. Nate come convento di clausura, nell’Ottocento vengono riadattate come carcere, e tali restano fino al 1983, anno in cui vengono dismesse a favore del più moderno complesso di Sollicciano. Dopo anni di abbandono le Murate vengono finalmente recuperate a a partire dal 2004 con un ambizioso progetto che coniuga edilizia sociale, riuso culturale e una parte museale per iniziative artistiche contemporanee.


Le Murate di Firenze

Una di queste iniziative riguarda l’ex-carcere duro, l’ala più antica del carcere, volutamente lasciata come è stata abbandonata negli anni Ottanta, con soltanto una sommaria pulitura. Si sale attraverso una stretta scala chiusa da un cancello di ferro e ci si ritrova in un labirinto di piccole celle, collegate da corridoi claustrofobici dai muri scrostati.


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Nei corridoi, i registri del carcere abbandonati raccontano con il freddo linguaggio della burocrazia la durezza della vita quotidiana: i ricoveri in infermeria, i pochi vestiti lasciati all’ingresso e recuperati all’uscita. Sequenze interminabili di nomi sconosciuti, di vite sbagliate, mille sfaccettature della povertà, dell’ignoranza, della criminalità, che hanno in comune tra loro solo queste celle sporche, buie e non riscaldate.


Le Celle alle Murate

Nelle celle, l’artista sarda Valeria Muledda ha dato voce ai fantasmi del passato. Vecchi telefoni, se presi in mano, permettono di ascoltare il racconto di ex carcerati, semplici criminali o partigiani (nella Seconda Guerra Mondiale il carcere venne usato per i prigionieri politici), mentre radio d’epoca mandano rumori incomprensibili. Un’installazione leggera, eppure potente, squarci su vite lontane e difficili.

Cos’è allora che rende così emotivo questo museo? Vediamone alcuni aspetti.

Il contesto: come in “Shining” di Kubrik, in cui il vero mostro è l’hotel, qui è il carcere che emerge come il protagonista assoluto della visita, un alieno che ingloba il visitatore con tutta la sua disumanizzante violenza.

Il coinvolgimento del visitatore:  lasciato libero di vagare nelle celle, aprire le pesanti porte di legno, sfogliare i vecchi registri, chi entra nel carcere duro è libero di usare l’immaginazione per popolare le celle di fantasmi del passato o addirittura vedersi lì dentro, in quelle mura strette e senza speranza.

La tecnologia “invisibile”: le voci che escono dai telefoni sono un intervento leggero e poco invadente, eppure emotivamente molto coinvolgente. La stessa forma del telefono, antiquato eppure funzionante, sembra collegare al passato, come in Matrix erano i vecchi telefoni che permettevano il passaggio tra dimensioni parallele.

La qualità dei contenuti: le interviste ai detenuti sono decisamente coinvolgenti. Con parole semplici, queste voci raccontano storie complesse e difficili in modo straordinariamente efficace, ricche della vivacità e ricchezza di sfumature del linguaggio popolare. Sono ore di interviste, e si lascia la cornetta a malincuore, sapendo che è fisicamente impossibile ascoltarle tutte. La frustrazione è voluta dai progettisti: nell’epoca della sintesi, della riduzione di tutto a slide e slogan, si vuole rimarcare che non abbiamo la possibilità di capire davvero la complessità della vita, solo averne un’idea, un assaggio.

La compassione dell’autore: è evidente che chi ha lavorato a questo progetto ha provato una forte simpatia umana, nel senso greco di “soffrire insieme“, con chi è stato in carcere,senza distinzioni tra partigiani, deportati ebrei o semplici criminali.  La partecipazione umana di chi progetta è condizione indispensabile, secondo noi, per la realizzazione di progetti coinvolgenti e davvero emotivi.

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