MUVI è da anni uno degli esperimenti culturali online più interessanti a livello nazionale:
un luogo di raccolta di immagini e storie in cui il ricordo personale diventa
memoria collettiva.
Intervista di Elisa Giaccardi a Federico Pedrocchi
MUVI (http://www.url.it/muvi/) è un progetto elaborato dalla casa editrice Sonar/TiConUno. L’acronimo sta per Museo Virtuale (MUVI) della memoria collettiva di una regione: la Lombardia. Il progetto, nato nel 1998, prende avvio nel 1999 al fine di preservare la memoria collettiva della Regione Lombardia attraverso l’utilizzo del multimedia. Una prima fase, conclusasi nel giugno 2003, ha visto il progetto crescere in collaborazione con Radio Popolare di Milano. Una trasmissione, condotta da Federico Pedrocchi e Claudio Agostoni, chiamava a raccolta gli ascoltatori, per partecipare con le loro storie e ricordi alla creazione di un museo virtuale dove raccogliere e rendere disponibile il materiale fotografico posseduto dalla gente.
Questa intervista è stata realizzata telefonicamente fra i due capi dell’Oceano l’11 Marzo 2004.
EG – Una prima fase si è conclusa. Mi può dare una valutazione su come la comunità locale percepisce il progetto e quanto ne è coinvolta?
FP – Molto lentamente stiamo mettendo in moto delle energie e degli investimenti per avere un “marchingegno” che funzioni sempre meglio e che sia in grado il più possibile di incontrare il potenziale di coinvolgimento del progetto. Fino ad ora abbiamo fatto delle iniezioni, dei carotaggi qua e là, e abbiamo certamente ottenuto delle cose interessanti… Ma al momento siamo al di sotto di quello che si potrebbe fare. Forse quest’anno riusciamo a fare una uscita in una situazione di festa regionale nella quale possiamo stare più giorni. Creare una presenza continuativa è fondamentale per noi, ma finora abbiamo fatto prevalentemente un “mordi e fuggi”. In molte situazioni abbiamo avuto come dei “flash” estremamente interessanti. Soprattutto attraverso la trasmissione radiofonica abbiamo avuto dei momenti anche di forte commozione nel ricordare le proprie storie. In più occasioni abbiamo avuto la sensazione che se c’è qualcuno o qualcosa che ricorda molte storie, di queste cosiddette minori, la gente che ha a che fare con questi fatti ha un trasporto particolarmente forte, perché non si aspetta che vengano raccontati, non si aspetta che gli venga data una ufficialità. Lo vediamo in molte persone che ci portano le foto delle propria famiglia e insieme alle quali scegliamo le più significative: c’è il piacere di dire: “Beh, insomma, non pensavo che mio padre che suonava in quella banda di paese… che questa cosa potesse essere di interesse, avere valore…”. Ma siamo a un cinquantesimo di quello che si potrebbe fare.
EG – Quante sono al momento le fotografie pubblicate sul sito?
FP – Circa 5000; ma le selezioniamo. Riusciamo a far capire bene alla gente che non possiamo prendere tutte le foto del nonno… Talvolta arrivano anche con 80 fotografie e ne prendiamo solo 8. Se l’incontro è ben fatto e condiviso (e col tempo abbiamo imparato), la gente capisce questa cosa ed è contenta lo stesso. Complessivamente avremo visto fra le 20.000 e le 30.000 foto.
EG – Qual è stato il ruolo della trasmissione radiofonica?
FP – La trasmissione per il momento è ferma. Può darsi che ne venga fuori una televisiva e forse useremo anche degli altri medium un po’ particolari che possono essere per esempio dei grandi mercati. Il nostro problema è raggiungere i luoghi in cui la gente si reca per varie ragioni; questo per noi è importante. Dobbiamo essere in posti dove la gente può venire con le immagini. Ma la trasmissione, e in generale un medium, servono, perché insieme alle immagini, e spesso anche lontano dalle immagini, ci sono le storie, i racconti, le testimonianze della gente che non ci porterà mai nemmeno una foto, ma che a certo punto, per i percorsi più strani, per i temi che noi lanciamo e che non necessariamente sono sempre legati alle immagini che abbiamo, vengono fuori con delle storie; allora il medium è il racconto di questa storia. Noi cominciamo a raccoglierle come scritto, cominciamo ad avere qua e là dell’audio e vorremmo averlo sempre più. L’incontro mediatico con uno strumento “caldo”, che faccia parlare (come la radio), funziona, consente la partecipazione alla ricostruzione di tante piccole memorie e ricordi. Avremo fatto ad occhio e croce 150 trasmissioni e ricevuto 8-10 telefonate in media ad ogni puntata, con la sensazione netta che avremmo potuto andare avanti ogni volta mezz’ora in più.
EG – Mi può dire qualcosa di più su come avviene la raccolta e la scelta delle immagini?
FP – Normalmente le foto ci arrivano quando andiamo “sul campo”, quando ce le mandano, oppure ci arrivano anche per e-mail, o ce le vengono a portare in redazione, o ci arriva un CD con su le immagini, e noi negoziamo con i possessori. Siccome ci potrebbe essere l’idea che sono tutte belle, noi spieghiamo loro che un database è un qualcosa che viene consultato facendo una interrogazione. Se a un certo momento uno mette dentro certe cose e poi trova delle immagini tutte tremendamente uguali a se stesse, questo affresco si sgonfia, per cui bisogna cercare di avere il più possibile delle immagini emblematiche, delle immagini che abbiano dietro un po’ di storia anche piccola. Questo viene capito.
EG – Qual è il ruolo della redazione nella organizzazione del materiale e nella strutturazione del sito?
FP – C’è una nostra attività redazionale con scelte che sono trasversali: mettiamo insieme immagini che hanno provenienze diverse, magari provengono dallo stesso posto, ma sono state portate da più realtà e persone diverse e allora creiamo una mostra …Altre volte c’è un tema che viene fuori da un insieme di materiali e che riusciamo a vedere.. Sostanzialmente è una attività redazionale classica, però poi dobbiamo essere in grado di seguire le persone… Dal punto di vista della gestione dell’informazione, noi siamo una casa editrice e quindi c’è e ci deve essere una grandissima capacità di relazionarsi con la gente.
EG – La comunità, che fornisce i contenuti, non ha alcuna capacità diretta nella strutturazione o ristrutturazione dei contenuti?
FP – Qualche volta sì. Noi abbiamo delle storie, delle didascalie, scritte da nipoti, da figli, da madri… In qual caso la gente si divide, c’è chi sa scrivere, altri meno, ovviamente… Noi cerchiamo di usare un linguaggio molto piano, non vogliamo che il testo abbiamo in nessun momento un carattere accademico, per cui per esempio rarissimamente ricorriamo a degli esperti in trasmissione o negli incontri pubblici… Seguiamo un altro percorso. Poi, successivamente, gli storici, i ricercatori, gli esperti potranno lavorare su questo sito… ma se noi chiamiamo un esperto a dire la sua su fatti e storie e luoghi, la gente non tira più fuori niente, perché – dice: “Ma io pensavo che fosse così, ma l’esperto me la racconta diversamente… allora chiuso, la mia idea non ha più conto”. Il risultato è che non tiriamo più fuori l’immaginario, e siccome in molti casi non è vero che la storia è gia tutta scritta ed è proprio dalle storie più strane che emerge il vero, bene, la strada da seguire ci sembra quella che noi pratichiamo…
EG – Come gestite le versioni discordanti?
Tendenzialmente ci interessa di più la molteplicità dei vissuti e abbiamo rimandato a un tempo successivo e a un’altra struttura il metter ordine in queste cose. Adesso ci interessa questa grande narrazione. Sui fiumi lombardi per esempio e sui canali è assolutamente sorprendente come la gente abbia le idee più strane. Li fa entrare e uscire da tutte le parti, quello che è il Seveso dopo un po’ diventa il Lambro… i navigli poi, quelli che vanno in giù li fanno andare in su, e via dicendo… Tutta l’area lombarda aveva una bella canalizzazione ed è stata tutta coperta, quindi su quello che c’e sotto la gente inventa le cose più strane… Noi abbiamo degli storici che possono ricostruire perfettamente tutta la canalizzazione, però a noi interessa il leggendario, perché accanto a quella roba cosa succede? Succede che uno dice: “Ma no quello lì era il Seveso, tanto è vero che io mi ricordo che mio nonno diceva che quando all’inizio del fascismo venne attaccata una Casa del Popolo una notte e ci fu uno scontro tremendo, finirono tutti nel Seveso…” Questo è un pezzo di storia che probabilmente ad alcuni storici dell’ dell’antifascismo locale era completamente non noto. Se però quello era convinto che fosse avvenuto vicino al Seveso e invece era il Lambro… bene, vuol dire che può essere ricollocato vicino ad altri pezzi che conosciamo. Ma quella persona lì tira fuori quel pezzo, e quindi diventa un oggetto che storicamente può essere analizzato, perché lui e convinto che è il Seveso! Attraverso un falso viene fuori un vero. Se a quella persona gli andassimo a dire: “Ma lei, che aveva il nonno che era così impegnato politicamente, sul Lambro è successo qualcosa?”, lui direbbe: “Niente!”. È questo il meccanismo che a noi interessa attivare. Ci sono delle idee stranissime, per esempio, su come si lavorava… però, spesso e volentieri, le gente prende delle cose cha riguardavano un certo mondo del lavoro e le appiccica a un altro. Ma in questo trasferimento si vengono a capire delle cose estremamente importanti…
EG – Avete in previsione delle fasi di ristrutturazione del sito?
FP – Per il momento siamo lontani da questo, perché dobbiamo impegnarci, per le poche forze che abbiamo avuto finora, di più nella raccolta. Dopodiché possiamo senz’altro pensare di ritornare su tutto questo materiale con un lavoro più intenso. Certo le dirò, ci piacerebbe che le sette università che abbiamo sul nostro territorio magari esprimessero qualcosa di interessante sul piano della ricerca… Ma per il momento abbiamo avuto soltanto dei segni minimi. Siamo ancora in una fase di “semina”. Questa è una operazione che immessa in un tessuto culturale popolare, si aspetta un po’, si vede che tipo di rimbalzi fa e dopodiché si tira la rete e si vede che cosa c’è dentro. Con le trasmissioni spesso e volentieri siamo noi che proponiamo il tema: il matrimonio, l’utilitaria, il naviglio, le squadre di calcio di serie Z, andare a messa, le vacanze, come era la miseria 70 anni fa… Noi facciamo questa operazione qui, ma non la facciamo in un modo sistematico.
EG – Lei pensa che se le persone potessero loro stesse caricare le foto sul sito, decidere insieme come organizzarle, sarebbe meglio o peggio?
FP – La domanda è interessante. Noi abbiamo avuto una sola tesi di design del Politecnico di Milano, che si sta concludendo adesso. Tre ragazze hanno progettato, in modo teorico, un sito in cui un sistema di content management consente questa cosa. Naturalmente è un consentire un po’ fasullo, perché lei non lascia libera la possibilità di impaginazione, ma di fatto dà dei template (ovvero dei modelli), dentro i quali la gente può mettere le proprie cose. In fondo non è molto diverso dal fatto che loro ci mandano le loro immagini, con le loro didascalie… però potrebbe essere interessante.
EG – Questo però, sempre integrato con processi di presenza sul territorio… Credo che il valore di MUVI sia proprio nella capacità di coinvolgere le persone emotivamente attraverso il rapporto con la comunità.
FP – Guardi che una donna che racconta la storia di suo papà in venti minuti, registrata o anche ripresa con un video, racconta una tal massa di cose, come una cascata, che se questa persona dovesse mettersi lì a scriverle, a ordinarle, non le verrebbero fuori: quelle lì sono cose che vengono fuori così, come quando uno si svuota le tasche. Se chiediamo a uno di strutturare la sua storia, cominciano a venirgli mille problemi: “Ma sarà bello messo così?…”. Io credo che sia più spontaneo così, come facciamo noi. Infatti c’è della gente che ci porta le foto e poi incomincia a parlare, parlare, parlare…
EG – Una tendenza è quella di fornire all’utente la possibilità di fare da solo determinate cose. Però rispetto a un progetto come MUVI, che ha delle potenzialità straordinarie proprio per quanto riguarda il coinvolgimento, mi domandavo come eventualmente una cosa di questo tipo potesse essere integrata. Poniamo che io dia la possibilità di gestire i contenuti, di strutturarli, di ristrutturarli e di negoziarli anche ad altri, oltre che la redazione…
FP – Lei tocca un vecchissimo problema. Mi ricordo letture di anni fa, letture di Sklovskij, un intellettuale sovietico che si interrogava sulle commedie composte dagli operai nel 1923 e diceva: “Non capisco perché dobbiamo andare a vedere queste commedie, quando abbiamo Cechov; oppure non capisco perché mettiamo la macchina da presa in mano agli operai…” È un vecchio, antico problema… Due settimane fa ho fatto un’ora e mezza di registrazione audio con un operaio delle cartiere Burgo. Le cartiere Burgo sono vicino a Milano e fornivano carta a tutta l’editoria milanese. Oggi sono completamente vuote e sono ora in fase di demolizione. Questo operaio ci ha lavorato dentro dal ’52-’53 fino al ’92, quarant’anni. Abbiamo fatto un giro dentro questi grandi capannoni vuoti, che però per lui erano pieni… lui vedeva u segno sul muro, una x di 3 centimetri, e diceva: “Perché qui arrivava la livella…”. Per lui era tutto pieno! Il racconto di quest’uomo era una racconto fantastico. Se gli diciamo: “Senta, mi mandi lei qualcosa…”, secondo me ne viene fuori un quarantesimo. Naturalmente ci vuole una certa sensibilità e intelligenza in chi raccoglie… Quindi io credo che questa parte qui sia ineludibile; poi se vogliamo con calma introdurre degli strumenti che invece consentano una espressività diretta, facciamolo. Però non pensiamo che in questo modo noi siamo più vicini a quella che è la capacità di memoria e di espressività della gente. Non è vero. MUVI è un museo che deve essere letto, sfogliato, che deve entrare nelle case della gente e mentre bevi un bicchiere di vino te lo vedi sul monitor. La nonna può andare dal nipote e dire: “Senti, fammi vedere…”. Allora qui abbiamo una applicazione delle nuove tecnologie spaventosa, rendono possibile una cosa che non sarebbe mai stata possibile… Ma se da questo ci facciamo prendere da un delirio di onnipotenza, e iniziamo a pensare che la gente dovrebbe imparare a montare pagine web o filmati, bé, questo sarebbe sciocco.
EG – Quale è il ruolo delle tecnologie digitali in MUVI?
FP Il dato principale è che noi abbiamo migliaia di immagini che non potrebbero essere collocate in un museo fisico. Come potrebbe essere? Lunghi corridoi con migliaia di quadretti accompagnati da didascalie? Improponibile. Su un monitor invece tutto il museo è perfettamente percorribile. Tenga presente anche un altro aspetto fondamentale: questo non è un museo che ha una sua struttura generale e poi ogni tanto arriva un pezzo nuovo, questo è un museo che ogni anno ha 1500 cose in più. Cosa facciamo? La gente continua a ritornare in un museo fisico perché sono arrivati dei pezzi nuovi? E come li integro con i pre-esistenti? MUVI è fruibile solo attraverso il digitale… Qui c’è una precipitazione chimica che il multimedia rende possibile. Dopodiché sullo schermo appare un impaginato che è classico, c’è una foto, ci sono delle didascalie, ci sono dei testi da leggere. Naturalmente non scriviamo un romanzo per ogni cosa; usiamo il criterio di essere abbastanza sintetici andando a video, però poi la narrazione è alquanto classica. Quindi si tratta di una normale struttura narrativa che è consolidata da tempo e nella quale la gente si riconosce, legge a video come legge un giornale; ma è l’equazione precedente che rende possibile ciò che prima non si poteva fare.
EG – Mi parli della rete degli scanner. Avete il senso della collaborazione a livello territoriale tra chi ha la tecnologia o la conoscenza informatica e chi no?
FP – Gli scanner pubblici non hanno lavorato più di tanto, perché il nipote che smanetta con un piccolo scanner è più vicino a qualunque nonna. Abbiamo sempre detto: “Andate, scansite e andate via con le vostre immagini”. Dunque non è una questione di diffidenza. Effettivamente siamo in un territorio informatizzato e quindi vicino c’è qualcuno. La collaborazione tra generazioni sta funzionando molto bene. Abbiamo visto che funziona e anche che ne viene fuori una cosa italiana forse… e cioè che al giovane con i pantaloni lunghi e stramolli, se gli parli dei vecchi, non gliene frega niente, ma se gli parli di suo nonno… improvvisamente, il nonno è un’altra cosa, è diverso.
EG – Qual è la formazione del gruppo di redazione?
FP – Il gruppo viene da un mix di esperienze di comunicazione in vari ambiti (radio, televisione, stampa quotidiana, libri…). Siamo tutti informatizzati (facciamo editoria multimediale), ma nessuno è informatico. Personalmente sono stato anche autore testi di alcune trasmissioni. Quando ho messo in piedi Radio Popolare Milano facevamo anche sceneggiature. Inoltre ho una lunga frequentazione con situazioni in cui si va a sentire la gente, la si intervista.
giugno 2004
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