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Digital Dialogues

Un ampio reportage dalla nostra "inviata" a Londra Ambra Carabelli.

Sarebbe ingiusto uscire dalla conferenza“Digital Dialogues” (Victoria&Albert Museum, 15-16 giugno 2007) decantando con entusiasmo il nuovo favoloso video podcasting della Tate Modern, l’accattivante nuovo percorso didattico del V&A o l’innovativo progetto di ricerca sui telefoni cellulari di Kostas Arvanitiis.

Da Italiana, cresciuta con il ritornello nelle orecchie “non si può fare perchè non ci sono soldi”, tra tutti gli interventi di illustri rappresentanti museali del panorama internazionale, c’è n’è uno in particolare che mi sembra semplicemente eroico: quello di East Lothian Museums.

Una microscopica realtà Scozzese, tanto piccola che Peter Gray inizia la sua presentazione gettando una massiccia dose di autoironia sulle collezioni, sulle strutture e sul personale drasticamente ridotto a 4 persone impiegate full-time. Tre piccoli musei che fanno pensare a tutti i piccoli musei etnografici sparsi come briciole sul nostro territorio. Nati nel 1990 i tre musei East Lothian hanno una collezione di 20000 pezzi tra fotografie e oggetti del mondo rurale.

Malgrado le piccole dimensioni, la realtà di questo museo è tutt’altro che provinciale: produce Video Podcast come la Tate Gallery, ha il suo profilo in MySpace come i musei più all’avanguardia, ha sperimentato l’uso di cellulari come guide analogamente al progetto di ricerca di Kostas e ha Blog e attività educative on line come il V&A. E la cosa più sorprendente: a costo praticamente zero.

L’idea lungimirante è quella di investire in una strategia fortemente comunicativa, sfruttando il web e tutti i servizi gratuiti che questo produce. I punti che rendono questa strategia vincente sono:

– L’intuizione che non bisogna necessariamente creare una propria community a partire da zero; è più semplice inserirsi in quelle già esistenti, raggiungendo una nuova e inaspettata audience: quella che i canali di comunicazione tradizionali non riescono più ad accattivarsi (in primo luogo i giovani).

– Sfruttare tecnologie e modelli di comunicazione che gli utenti già conoscono e con cui hanno confidenza.

“Come molti professionisti museali” dice Peter Gray “la mia preoccupazione (che ormai ho da anni) è trovare il modo migliore per consentire l’accesso on-line alle collezioni e ai contenuti. L’obiettivo mi è sembrato per molto tempo, in qualche modo quello di “costringere” i visitatori ad entrare nel mio sito Internet, che poi però alla fine risultava essere l’unico punto di contatto con loro. Lo straordinario vantaggio che le tecnologie digitali hanno, è alla fine la facilità con cui è possibile offrire i contenuti attraverso media diversi, in diversi contesti”.

Così nascono le prime idee: – la pubblicazione in Internet di video (home made ma pur sempre interessanti) attraverso siti per social networking e video sharing comeYou Tube (www.youtube.com) e Google Video(video.google.com) .

– la creazione di un Blog, uno spazio il cui stile comunicativo dev’essere diverso da quello istituzionale, dedicato piuttosto al sito Internet. Un posto in cui intrattenere discussioni interessanti in modo informale.

– la creazione di un profilo su MySpace (www.myspace.com) dove i più grandi musei internazionali (Tate e Brooklin Museum per citarne due) hanno già presidiato il loro “spazio”. La creazione di una pagina personale anche su Bebo (www.bebo.com) e su Facebook(www.facebook.com) : i nuovi canali di comunicazione, usati soprattutto dai giovani.

– L’utilizzo di Flickr (www.flickr.com) , il sistema gratuito per la gestione e condivisione di immagini. Un servizio nato per creare “album virtuali” in cui i musei internazionali hanno subito visto un nuovo territorio di conquista perchè permette sia di creare uno spazio in cui caricare immagini e didascalie che i visitatori possono vedere e commentare, sia di lasciare che i visitatori pubblichino immagini proprie in una raccolta dedicata ad un preciso argomento.

Si tratta di una strategia comunicativa molto coraggiosa, una strada davanti alla quale inevitabilmente si pongono degli ostacoli che all’apparenza sembrano insormontabili, come ammette il Principal Museum Officer:

– problemi sull’uso delle licenze, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di immagini; anche se spesso, dice il relatore, quello che frena è la percezione che possano esserci problemi di questo tipo. – L’idea/percezione che questi progetti possano essere costosi – La mancanza di capacità tecniche – La percezione che possa essere più difficile di quanto in realtà poi è – La gestione dei dipendenti in questo lavoro

Che fare? – Usare tecnologie gratis o molto economiche e facili da usare – Usare tecnologie “di uso quotidiano”, che l’audience percepisce come familiari e che sono di facile utilizzo anche per il personale del museo – Sfruttare e rielaborare per l’occasione e in un modo comunicativamente efficace materiali già fatti/contenuti che già si hanno (vecchie mostre, ricerche, pubblicazioni…) – Ricordarsi che è molto più semplice chiedere scusa piuttosto che chiedere un permesso (un assunto che dal mondo Anglosassone non ci si aspetterebbe…)

L’idea che emerge da questo e da altri lavori presentati nella conferenza è che il modello di comunicazione con i visitatori stia cambiando: non si tratta più solo di offrire i contenuti in modo sempre più accattivante, ma di accogliere e rielaborare anche i contenuti che i visitatori stessi producono conseguentemente alla visita. Non lasciare insomma che il dialogo tra museo e visitatori muoia una volta presa la porta d’uscita, ma fare in modo che continui nel tempo e che adotti le forme tipiche della comunicazione odierna, delle “community” virtuali.

Parlando della necessità di creare spazi virtuali in cui i visitatori posso rielaborare i contenuti della visita e interagire tra loro, Kevin Walker delLondon Knowledge Lab cita a proposito l’interessante esempio di My Art Space (www.myartspace.org.uk). Si tratta di un progetto educativo in parte WebBased sviluppato attorno ai presupposti: “Explore-Collect-Share” (“esplora, cattura le immagini, condividile con altri”). Una rete di musei incoraggia gli studenti a fotografare con i loro telefoni cellulari tutto ciò che durante la visita cattura la loro attenzione. In un momento successivo sul sito viene fatto l’upload delle immagini che gli studenti possono organizzare in vere e proprie “gallerie” che ricreano quello che è stato il loro personale percorso di visita (ciò su cui hanno focalizzato la loro attenzione) e a cui aggiungono didascalie che spiegano quello che hanno visto (e che resterà così nella loro memoria). Un sistema analogo a My Art Space è OOKL (www.ookl.org.uk).

L’idea che “scegliere e acquisire immagini” durante la visita sia un tassello importante nel processo di costruzione della memoria è alla base anche dei nuovi percorsi didattici offerti da Victoria&Albert Museum, presentati da Lorna O’ Brien.

Nati da una sponsorship di Canon, i “digital photography programmes” comprendono due tipi di percorso: uno rivolto alle famiglie (il flusso stimato è di 200 famiglie al giorno) e uno rivolto ai giovani tra gli 11 e i 18 anni. Nel primo programma viene prestata una fotocamera digitale ad ogni famiglia e dopo una breve spiegazione sull’utilizzo si lascia che i bambini partano alla scoperta del museo raccogliendo più immagini possibile degli oggetti in mostra. Dopo la visita la famiglia può scegliere se far stampare le fotografie (o una selezione di queste) al personale del museo oppure se aspettare il loro turno per il digital artist. I bambini possono scegliere un articolo su cui stampare la loro immagine “artistica”: una maglietta, un portachiavi, una spilla, ecc.

Una volta scelto l’oggetto, l’artista manipola con Photoshop la fotografia scelta (in cui inserisce anche il ritratto del bambino), sotto le indicazioni che gli dà il piccolo visitatore (“più mostruoso, più peloso, più colorato, con più occhi, ecc…”). Mi faccio spiegare da uno di questi artisti che tempistica richieda la creazione di una singola immagine: “dipende dal bambino” mi spiega con uno sguardo inaspettatamente paterno, a discapito del look borchiato e tatuato “di solito 20minuti/mezz’ora, perchè Photoshop è uno strumento con molti vincoli mentre nella sua mente il bambino pensa che sia possibile fare qualsiasi cosa…bisogna aver una gran pazienza…perchè tutti vogliono un’immagine che sia unica…”.

Interessante anche il programma “Create!” dedicato ai giovani tra gli 11 e i 18 anni, con un flusso però di soli 7 visitatori alla volta su prenotazione (limite dovuto alla disponibilità di soli 7 pc). Dopo aver acquisito le loro immagini e averne scelta una sono i ragazzi stessi a creare il loro prodotto artistico, utilizzando Photoshop e Flash su indicazioni di un docente/artista del museo. Questo secondo programma ha delle grandi potenzialità perchè in questo caso non solo la tecnologia è un tramite per rendere più interessante l’esperienza di visita al museo, ma il museo diventa il luogo per una “alfabetizzazione tecnologica” (imparare giocando il funzionamento base di due softwares tanto utili quanto complessi). Le tecnologie che il V&A impiega per questi programmi didattici sono: 20 macchine digitali Canon (lo sponsor), 40 flash cards, 6 piccole stampanti Canon, 7 PC, 1 fotocopiatrice a colori, i software Photoshop e Flash per ogni pc.

“Podcast” e “Videocast” sono gli altri due temi interessanti della conferenza: due modi per avvicinare un’audience che sempre di più usa Internet per informarsi e svagarsi (a discapito degli altri media).

Tate Modern presenta TateShots (www.tate.org.uk/tateshots), sponsorizzato da Bloomberg: lanciato a febbraio 2007 il programma prevede la realizzazione di sei video (di circa 4 minuti ciascuno) ogni mese; è possibile sottoscrivere un abbonamento gratuito dal sito e vedere i filmati sul proprio computer o sul proprio video iPod. I temi dei filmati sono interviste con gli artisti, “dietro le quinte” delle mostre, tours con i curatori, performances e quant’altro possa invogliare i visitatori a capire e ad aggiornarsi sul continuo lavoro del museo.

Di Podcasting parla anche Tom Goskar di Wessex Archaeology(www.wessexarch.co.uk) che spiega come contro ogni nefasta previsione e contro ogni magra aspettativa, Archeocast sia diventato un fenomeno da 50000 e più downloads in meno di due anni. E’ un successo non tanto per l’aumento notevole dei visitatori del sito Internet, ma soprattutto per la sfida a cambiare la percezione che di solito hanno le persone dell’archeologia (qualcosa di difficile da capire e soprattutto noioso). Il tutto è nato da un esperimento che si proponeva attraverso un serie di interviste/documentari in mp3 di mostrare l’archeologia “così com’è”.

Wessex Archaeology ha sfruttato l’opportunità di creare files audio per approfondimenti su diversi temi (es. “Morte e sepoltura nell’Età del Bronzo”), che Tom spiega, non sono necessariamente vincolati all’esposizione in un museo. Il podcast non è un’audio-guida! O comunque non bisogna relegarlo ad essere solo quello! La funzione del podcast può essere quella del documentario, della contestualizzazione pre e post-visita degli oggetti in mostra. La realizzazione di un podcast non è costosa (richiede attrezzature economiche e softwares gratuiti come Audacity), è facilmente realizzabile e può essere pubblicizzata in vari modi (nel sito internet, tra i podcasts di Yahoo e iTunes, in email lists e blog, e in social networking come MySpace, Bebo, ecc…).

I vantaggi sono importanti: dall’offrire al museo uno strumento in più per esprimersi (ogni museo ha delle storie da raccontare!) al fatto che ogni iscritto è un potenziale visitatore.

Di tutti i progetti presentati nel corso di “Digital Dialogues” (fatta eccezione per Tate che si avvale di un buon Media Department) quello che colpisce è la facilità di realizzazione, grazie all’utilizzo di tecnologie che sono (dovrebbero essere) di uso comune. E’ sconvolgente la facilità con cui attraverso Flickr (a cui tutti i partecipanti fanno cenno ripetutamente) si possono costruire gallerie di immagini sia da parte del museo che da parte del visitatore.

La domanda che i professionisti museali al di là della Manica si stanno ponendo adesso sembra non essere più “quali contenuti devo mettere nel mio sito Internet” ma “attraverso quali canali del web posso diffondere i miei contenuti nel miglior modo possibile. Come posso dare spazio al feedback con i visitatori, lasciando loro margine per ri-creare, ri-elaborare e commentare le loro personali memorie di visita”.

E noi? Qual ’è la domanda che ci poniamo oggi?

giugno 2007

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